03/01/08

Intervista 1. Domande alla copertina

I quadri di Davide Bix Bignami, quelli della serie di cui fa parte la copertina di Bondville, mi ricordano delle fotografie di fatti recenti, accaduti in Cina, che sembrano i simboli odierni della resistenza del singolo contro il potere, del povero contro il ricco, dell’est contro l’ovest, del passato contro il futuro che incalza inesorabile.
Sono le cosiddette case-chiodo, “Dingzihu” (钉子户).
Anche i muri, i condomini, gli appartamenti con balcone di Bix stanno lì in mezzo al vuoto, emblema della solitudine umana, metafora del costrutto che innalza l'uomo al cielo ma lo separa irrimediabilmente dalla terra, dalla moltitudine dei suoi simili e dalle loro mediocri ambizioni.













-Ti considero un artista e un viaggiatore, ed è difficile, credo che lo sia anche per te, scegliere tra i due, scindere un’attività dall’altra. Ti faccio una domanda che hanno fatto, tra gli altri, anche a Kapuscinski: perché si viaggia?
-Si viaggia per una necessità, un’esigenza, la destinazione è ovviamente un pretesto, tutto quello che ci sta intorno, i dettagli del viaggio, la durata sono casuali ma il motivo è che si ha bisogno di andare, partire, essere in movimento, di trovarsi nella condizione di ‘non essere più nello stesso posto’.

-Per Kapuscinski si viaggia perchè si è costretti. ‘Sono convinto che l’uomo, per natura, è un essere sedentario, legato alla terra,’ diceva. Chatwin, invece, parla dell’orrore del domicilio..
-Non so se tutto si può considerare viaggio dal momento che ci si sposta. È chiaro, uno può fuggire la siccità, la guerra, partire con l’illusione di un’altra vita. In quel caso è un percorso disperato. Un viaggio, per me, è un lusso che uno si prende quando può. Di Chatwin ricordo che amava trovare la stessa irrequietezza in persone diverse, continenti, etnìe, età anagrafiche. Del neonato che piange, diceva che, se lo prendi in braccio e cammini per la stanza smette di piangere perché risponde a un’esigenza ancestrale di movimento. È una teoria affascinante che però non spiega perché molte genti non provano lo stesso impulso di viaggiare.
Io viaggio quando posso, nessuno mi obbliga, tranne una necessità… ‘misteriosa’.

-Perché dai tuoi viaggi non hai mai tratto nulla di concreto? Non c’è mai un progetto dietro, eppure io c’intravedo qualcosa, credo che questi quadri ed altri, quelli grandi a carboncino, ad esempio, non esisterebbero se tu non avessi viaggiato, soprattutto in Africa. Insomma, quando parti cosa vai cercando?
-Quello che so è che viaggiando mi pongo in una condizione diversa, mi espongo a una quantità di stimoli differenti, nuovi, che noto di più. Durante il viaggio si acuiscono alcuni sensi che nel quotidiano stanziale sono secondari o irrilevanti. Ad esempio, scopri di avere facoltà che avevi messo da parte come il senso dell’orientamento, la facilità a parlare le lingue straniere, la capacità di osservazione dei luoghi che ti serve per tornare in un posto che hai visto il giorno prima. È una situazione stimolante di per sé. A volte arrivare può anche essere deludente ma la condizione del viaggio è indipendente dalla meta finale, geografica.

-In molti dei tuoi quadri sembra quasi che tu scavi il vuoto intorno al soggetto. Il tuo appartamento di Brescia, in un dipinto, è diventato una palafitta! È il vuoto che ti porta a viaggiare o è dai tuoi viaggi che trai quel senso di vuoto? È una domanda da Marzullo, lo so, ma ormai l’ho fatta!
-Esiste un rapporto tra questi due vuoti, quello tra i dipinti e quello tra i luoghi, ma non ha una gerarchia. Le cose che ho disegnato e dipinto escono da una visione interiore, poi quando viaggio, guarda caso, vado a cercare dei luoghi deserti, vuoti, spaziosi per lo stesso motivo per cui ho fatto quei disegni. Non vado a vedere quei luoghi, poi torno a casa e me ne servo per creare gli scenari e le ambientazioni dei miei quadri anche se, a volte, noto un particolare architettonico, una certa luce che poi metto in quello che faccio ed è anche giusto viaggiare per esporsi a stimoli più freschi, ma le due cose sono due binari paralleli.

-Ricordo che una volta mi hai parlato di vertigini…
-Il mio discorso sulle vertigini era una riflessione sugli stati d’animo del viaggiatore in rapporto anche all’arte, cioè come l’arte va a rievocare certi stati d’animo. Il senso di vertigine è un fenomeno fisiologico, abbastanza naturale all’aperto, in montagna, ad esempio. È un fenomeno che al tempo stesso suscita attrazione e timore e che, a mio parere, è stato ben interpretato dagli scultori e architetti romanici e gotici che progettavano e costruivano delle cattedrali che richiamano molto le rupi e gli strapiombi, le forme aggettanti con sagome zoomorfe che si possono osservare in montagna e proprio in montagna, in questi luoghi di particolare suggestione, sovente, nella parte cristiana del globo, si trovano santelle, madonne, mazzi di fiori perché, evidentemente, tale suggestione è avvertita da tutti. In un periodo in cui la chiesa voleva glorificare sé stessa, porsi come tramite tra la divinità e l’uomo, incutere timore e gestire la soluzione ai problemi ponendosi come mediatrice, essa volle riproporre nelle città quei luoghi di suggestione e vertigine. Poi, facendo un salto abbastanza azzardato, passo al concetto di vertigine orizzontale che è quella che si prova negli spazi sconfinati, soprattutto quando non ci si è abituati. Quando uno si muove in ambienti dall’orizzonte limitato, appena si trova di fronte a un grande paesaggio o in un punto panoramico non può non provare una sensazione di stupore, di meraviglia e di suggestione. Questo tipo di impressione data dagli enormi spazi che uno può cercare viaggiando in zone desertiche, poco abitate e di ampie vedute è portata nelle città dalle arti, così come avveniva in epoca medievale con l’architettura. Arriva con il cinema e con le arti visive. Penso proprio alla galleria d’arte dove si vanno a vedere dipinti, fotografie, disegni che sfondano l’orizzonte che per noi, in città, è limitato a una decina di metri.
-Come hai collegato la tua idea di vertigine alla lettura di Bondville?
-L’ho collegato perché un giorno tu mi hai detto: perché non parliamo di vertigini che mi sembra un soggetto interessante!?! E io ho cominciato a ragionarci su…Scherzi a parte, poi ho scoperto che un collegamento c’è. L’avventura che tu racconti in Bondville ha, tutto sommato, uno spostamento geografico e temporale limitato. Vista dagli occhi di quattro ragazzini diversabili, invece, è un turbinio di cose, di eventi che non si capisce perché succedono, nè dove, nè come, nè quando succedono. Penso, ad esempio, a quando David Longari vaga su e giù per i gironi della città, sale le scale, entra in un giardino, fa degli incontri incredibili. Per lui è una situazione assolutamente avventurosa mentre per noi è uno spostamento limitato. E questo rutilare di emozioni e di avvenimenti dà un senso di smarrimento simile a quello provocato dalle vertigini. Nel succedersi confuso delle cose, nel perdersi e ritrovarsi dei bambini, trovo che ci sia un’analogia con le vertigini. Lo smarrimento non solo spaventa, attrae anche.

-Se non avessimo scelto un quadro che esisteva già, che cosa avresti disegnato per Bondville? Quale immagine del libro ha colpito maggiormente la tua immaginazione?
-Mi hanno colpito due descrizioni di luoghi. Una, alla prima uscita da Bondville, quando piove e ci sono gli omini del bosco che conducono i bambini nella grotta. Mi sembra di aver riconosciuto quel percorso e quel posto, mentre lo leggevo mi dicevo ‘io sono già stato qua’ e quindi sarebbe stato una forte ispirazione. L’altro passo, invece, è quando descrivi l’orizzonte che si apre sulle colline dell’Osario. La descrizione è abbastanza completa anche se non penso che avrei illustrato pari pari ciò che leggevo, avrei cercato piuttosto di catturare l’atmosfera, l’aria tersa del pomeriggio, la luce, la temperatura che c’era in quel luogo e avrei cercato di restituire le stesse sensazioni con un altro paesaggio.

-Alcuni lettori mi hanno detto una cosa giusta di David Longari, cioè che, a volte, non parla come un ragazzino ritardato, che sa quello che so io… Se devo paragonare il mio libro a quello di qualcun altro, (abbasso la modestia!) penso piuttosto a ‘La vita e la morte di Michael K.’ di Coetzee che a ‘Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte’ di Mark Haddon. Non era mia intenzione entrare nella testa di un bambino affetto da un ritardo mentale, volevo raccontare di un disagio più universale, di una diversità che appartiene a tutti. Alla presentazione del libro che abbiamo fatto insieme alle Librerie Feltrinelli, a Parma, anche tu hai detto qualcosa in proposito.
-Riguardo al linguaggio di David Longari, io penso che, quello di calcare solo all’inizio il modo di esprimersi di un bambino ritardato per poi, gradualmente e velocemente, passarlo a un linguaggio pur sempre molto personale e quindi identificabile col personaggio ma abbastanza sciolto da poter essere il narratore in prima persona di un romanzo, sia un espediente stilistico. Trovo che narrare una storia in cui il personaggio si esprime con fatica sarebbe stato difficile da scrivere e una grande fatica anche per chi lo avrebbe letto e non so se questi due sforzi sarebbero valsi a farci davvero entrare o perlomeno avvicinare alla psicologia di un bambino ritardato. Così, invece, le prime pagine ci servono da introduzione al suo modo di vedere le cose e ci permette poi di avviare un’intesa tra scrittrice e lettore per cui si sa che, da lì in avanti, si andrà via più lisci per poter raccontare la storia. Il punto di vista del bambino resta comunque credibile, a mio parere.

-C’è anche un percorso di crescita del personaggio che, durante il viaggio, prende maggiore coscienza di ciò che è e di ciò che gli sta intorno. Inoltre, dal mio punto di vista, dato che, ormai l’ho confessato: David Longari sono io, non è scontato che sia così ritardato, lo è ogni tanto. Diciamo che ha certe facoltà meno sviluppate di altre, come tutti, d’altronde..
-Forse una volta o due in tutto il libro, David da’ l’impressione di saperla troppo lunga, ma ci sta perché a volte i bambini si fissano su certi argomenti e certe cose vanno davvero ad approfondirle. Non ho mai trovato che le sue riflessioni stonassero, per me è semplicemente un espediente stilistico. A un certo punto lo stile si velocizza pur mantenendo un punto di vista chiaro. È uno stratagemma e io trovo che abbia funzionato molto bene.

-Che cosa significa fare arte ingenua?
-Quello dell’arte ingenua è un concetto molto personale, una provocazione. Tutti conosciamo la pittura naif, che significa letteralmente ‘ingenuo’ e chiamiamo naif quei pittori che, senza una formazione accademica, disegnavano come farebbe un bambino e di questa pittura ci piaceva soprattutto la freschezza, l’immediatezza. Oggi l’artista deve essere informato, veloce, arguto, scaltro, qualità che si allontanano molto dall’ingenuità, quindi, fare arte ingenua che però sia arte e non un’ingenuità, sarebbe anche un modo di colmare il divario tra chi fa arte e chi dovrebbe fruirla, visto che siamo in una condizione in cui dell’arte si fa benissimo a meno e visto che s’è creato un distacco, negli ultimi 40 anni, tra la società e l’arte, un distacco che è già stato raccontato benissimo, concettualizzato e chiamato ‘morte dell’arte’. L’arte ha perso il ruolo che aveva, ci sono tanti artisti ma l’arte riguarda pochissime persone al mondo, non tocca più la maggioranza della gente. In un simile contesto l’arte ingenua, in teoria, potrebbe interessare chi si sente intimorito o estraneo all’arte contemporanea. L’arte ingenua vorrebbe fare come uno che non sa, ed è un’idea abbastanza ambiziosa, me ne rendo conto. Lavorare come uno che non sa e che, pur non sapendo, arriva dritto al bersaglio. Quello che osservo nell’arte contemporanea è che ci si cita molto addosso. Si guarda quello che hanno fatto gli altri e lo si commenta, lo si amplia, lo si espande lo si rilavora, rimpasta, quindi per fare arte oggi è importante soprattutto sapere che cosa hanno fatto gli altri, a chi guardavano e, se si riflette su questa cosa, c’è la constatazione un po’ avvilente che, dagli anni 20, da quando Duchamp ha messo in atto la sua rivoluzione personale noi non stiamo facendo altro che rielaborare sul dadaismo e non è molto edificante. Si possono contraddistinguere le epoche storiche anche in base a momenti molto creativi, quando si guarda in avanti e si ha fiducia nelle proprie capacità che si alternano a periodi invece in cui si è conservativi, si cita. Oggi basta guardare il successo del restauro edilizio, del restauro del mobile, del ristorante con la cucina tipica come una volta er capire che tutto ciò vanno contro a quello che si faceva negli anni ‘50\’60 quando, il design, i mobili in formica soppiantavano quelli vecchi di legno massiccio . In questo momento, in questo movimento a pendolo, dunque, noi stiamo guardando indietro, tutto quello che facciamo come arte cita, si rifà, presuppone. Ecco il grande ostacolo per il fruitore: si presuppone che egli conosca una grande quantità di opere e di poetiche perché oltre ad averle viste deve averle capite queste opere e chi fa arte deve fare un lavoro brillante e arguto. Riuscire a fare la stessa cosa fingendo di non sapere tutto questo, quindi non citando, non lasciando trasparire ciò che si sa, equivale ad aver trovato un filone veramente nuovo. Il che è un obiettivo molto ambizioso da raggiungere.

-Ma secondo te è possibile fingere di non sapere?
-Sì, ma deve essere un’operazione convincente e intelligente. Pensiamo a Gauguin che, a cavallo tra 800 e 900, va in Polinesia e torna ‘primitivo’. Con la nostra mentalità, potremmo giudicare questa operazione un po’ troppo ingenua. Al suo tempo, invece, era un’operazione coraggiosa, coerente, che ha dato ottimi frutti. Se uno la ripetesse ora sarebbe davvero troppo ingenua e non convincerebbe nessuno. Ciò che ha fatto Gauguin è stato dipingere attraverso le suggestioni dei colori del luogo e la vita che conduceva cose diversissime da quelle che si stavano facendo in Europa, ed è stato, si, un esperimento ingenuo. Adesso andrebbe fatto in altri modi. Gauguin sapeva benissimo quello che stava succedendo in Europa, ma faceva finta di non sapere.

-Anche il cubismo parrebbe arte ingenua...
-Il cubismo si prefigge una figurazione ingenua delle cose per come si pone davanti a un modello, ma non c’è ingenuità nell’operazione intellettuale che fa nascere il cubismo, al contrario, è una furbata, un grande passo avanti. È l’esito formale ad essere ingenuo. Anche il collage è, di per sé, una tecnica ingenua, guarda caso la usano volentieri e con grande divertimento i bambini. Averla portata a livello dell’arte è stato un ottimo linguaggio.

-Fingere di non sapere sembra una rinuncia, sembra voler dire che più in là di così il discorso non può andare, s’arrotola su sé stesso, non serve. Interrompo la ricerca e parto da zero.
-C’è una certa frustrazione nel constatare che il lavoro procede per citazioni, ma non è vero che, all’interno di questo modo di lavorare non si possa andare avanti. Lo stanno facendo tutti. Fingere di non sapere sarebbe un’alternativa ma non l’unica alternativa, né sarebbe una scelta obbligata ma una scelta tra le altre. Un’alternativa al procedere per citazioni che è sempre stata a portata di mano è quella di attingere alle visioni interiori. Si può sintetizzare dicendo che un artista può essere cronista di quello che vede intorno a sé o di quello che vede dentro di sé. In entrambi i casi il suo è un filtro attraverso il quale le persone devono riconoscere esperienze che esse stesse vivono, altrimenti non funziona.

-È anche una ricerca di semplicità per essere più comprensibili? Esiste una tecnica più ingenua delle altre?
-Il collage lo è, per come si formano le immagini, molto istintive, immediate. La fotografia è ingenua quando è reportage, senza studio, senza preparazione. La foto istantanea è una tecnica ingenua.
Voler essere più comprensibile è una scelta pericolosa, se diventa il fulcro della tua ricerca rischi di non fare più arte, fai comunicazione o artigianato, a seconda dei risultati. Sarebbe molto bello risultare accessibile ma, a porselo come obiettivo si rischia di cadere nel didascalico. La ricerca di semplicità è stata portata ai massimi livelli nell’arte astratta e nel minimalismo che però non sono di così facile comprensione, per cui semplicità e accessibilità non vanno di pari passo.

-Ho l’impressione che nell’arte ingenua si lavora molto sul simbolico.
-Il collage ha delle figurazioni molto istintive, la fotografia casuale funziona quando riesce a catturare immagini che hanno una forte valenza simbolica. È il contrario dell’elaborazione completamente intellettuale dove, prima dell’immagine, creo una teoria, una spiegazione. Il simbolico è una cosa immediata ed è proprio per questo che coi simboli ci stanno lavorando una quantità di persone come i pubblicitari, i persuasori, e ciò rende difficile accostarsi ad un simbolo che non sia già inflazionato, rovinato, deviato, quindi è una strada non facile.

-Esiste una letteratura ingenua?
-Se esiste non lo so. Però potrei definire Bondville un esempio di letteratura ingenua perché ha come protagonista un bambino diversabile e l’idea di far vedere e raccontare il mondo dalla sua bocca è un’operazione ‘ingenua’.

-Ti viene in mente qualche altro libro ‘ingenuo’?
-Forse andrebbe ricercato nella letteratura per l’infanzia indirizzata agli adulti, tipo…Il piccolo principe…penso anche Calvino.



-Disegneresti una maglietta dal titolo:’Diversabilizziamoci’? Io immagino una Zozza che va a palla su una sedia a rotelle, con le trecce al vento, dietro di lei, a piedi, c’è una fila di ‘normaloni’, di ‘babbani’, come direbbe Harry Potter, che s’affannano a raggiungerla ma non ce la fanno, lei ride, è felice…
-La prenderei come una sfida. È un soggetto estremamente difficile. Bisogna evitare tutto ciò che è retorico, cinico, didascalico, scontato e cosa resta? Resta qualcosa di molto personale da dire sul fatto che la diversità è da valorizzare. Non si può neanche sostenere che diversamente abile è bello o è meglio perché, oggettivamente, il fatto di non poter camminare non è un vantaggio. È bello il fatto che una persona che non cammina può mettere a frutto, come gli altri, meglio di altri, altre facoltà anche legate al movimento, non necessariamente intellettuali. Gli sportivi diversabili sono un bell’esempio di questa volontà di dire, ’io faccio con quello che ho’ e posso guardare questi sportivi con lo stesso godimento con cui guardo gli sportivi normoabili. Punterei sulla soluzione umoristica del soggetto, qualcosa di simile a quello a cui alludevi tu, un paradosso. Poi, però, vorrei sapere che cosa ne pensano i diversabili, se si sentono lusingati, offesi oppure perplessi…


i quadri del post sono di Davide Bignami

3 commenti:

Anonimo ha detto...

La copertina attira l'attenzione del potenziale lettore. Con il rischio, per altro, di allontanarlo. Per cio' non ho ancora capito se voglio foto e quadri i ncopertina o semplicemente il titolo.. zapp

Anonimo ha detto...

In parte è vero ciò che dici, ma non dimentichiamoci che capita spesso di leggere bei libri con copertine "scandalose".
Almeno in questo caso abbiamo il classico caso dei due piccioni con una fava...Un ottimo libro che ci fa conoscere una brava scrittrice e una bella copertina che ci fa conoscere un ottimo pittore

Anonimo ha detto...

...forse perchè tu leggi tutta quella fantascenza con quelle copertine alla ron hubbard..